giovedì 12 novembre 2009
eucalipto
Comincerò dalla fine senza per forza tornare all'inizio. La fine era la fine di un film che, prima a fuori orario in diretta, poi da un vhs registrato e poi ancora da un dvd comprato su una bancarella parigina, avevo già visto almeno tre o quattro volte, una fine, in altre parole, conosciuta.
Una fine ironica quanto volete quella di Pierrot/Ferdinand/Belmondo che si suicida nel finale, una fine in technicolor, ma pur sempre una fine tragica. Tragica nonostante le voci fuori campo dei due protagonisti, sussurranti sopra un mare luccicante, lascino intendere che nella morte i due amanti hanno finalmente trovato la loro personale "eternità".
Ironica, certo, come ho detto, ma anche una fine di fronte alla quale chiunque ami almeno un po' questo film non può certo mettersi a ridere o accettare che qualcuno, chicchessia in sala, ne rida o, peggio, ne ridacchi.
Eppure questo oggi è avvenuto e il finale perciò, che credevo conosciuto, ne è uscito stravolto. Non tanto per le risata in sé, quando per ciò che ha provocato. Quella risata infatti è riuscita a stizzire il grande vecchio che mi sedeva di fronte, un omone barbuto, con gli occhietti azzurri, vispi e malignamente intelligenti, una specie di Babbo Natale incattivito dagli anni. Il vecchio, con un vocione tenorile che si era già fatto sentire varie volte nel buio della sala, commenta senza troppi giri di parole «che cazzo ti ridi?»
A questo punto devo deludere l'eventuale malcapitato che mi stesse leggendo. Niente risse, niente paroloni che volano o borsettate sulla faccia scagliate dalle rispettive signore. Eravamo in un cinema d'essai, tra gente da cinema d'essai e, pertanto, il semplice far finta di niente dell'autore della risata e bastato per chiudere lì l'accaduto.
Ma nel mio piccolo mondo malato quel vecchio è diventato il mio eroe, uno Zorro incanutito e incontinente, al quale per lasciarti la sua "Z" tatuata in fronte gli basta tirarti un'occhiata storta.
Quel vecchio, lo stesso vecchio, parecchie scene prima, quando nel film Marianne/Karina suggerisce al suo amato/odiato Pierrot di inserire nella sua poesia sulla vita il verso «è come l'odore dell'eucalipto», quel vecchio, dicevo, aveva informato la moglie che gli sedeva accanto (palesemente imbarazzata per quel suo dire non proprio a fil di voce) che la parola "eucalipto" contiene in sé addirittura tutte e cinque le nostre belle vocali AEIOU.
Sono così per me gli eroi. Persone che come Pierrot/Ferdinand/Belmondo si ostinano a tenere la mente sempre viva, così viva da arrivare a sfiorare spesso il limite sublime dell'animalità più autentica, di quando non si vuole e non si cerca null'altro se non, semplicemente, "esistere". Sono persone sole che parlano troppo e per le quali "amare" corrisponde a "raccontare", perché quando amano sanno vedere in tutto, ovunque e dovunque una storia nascosta dentro il semplice movimento delle cose. Sono degli scorbutici Godard innamorati della loro Anna Karina, è gente a cui neppure serve dire «azione» che stanno già facendo CINEMA.
mercoledì 11 novembre 2009
I battiti mancanti al polso del Belpaese
Ieri mattina a UNO MATTINA, l'Italia, me compreso, ha potuto assistere, per l'ennesima volta nel corso di queste ultime settimane, a un servizio che consisteva in una serie di interviste al cosiddetto "uomo della strada" al quale si chiedeva un'opinione, o per meglio dire un commento a caldo, un'impressione su questa fantomatica influenza H1N1.
Agli intervistatori, in particolare, interessava capire cosa ne sapesse la gente e come ognuno di loro avesse scelto di gestire questo del tutto ipotetico allarme infettivo. Io, invece, una volta che la linea è tornata in studio, avrei tanto voluto capire come abbia fatto il condutture della trasmissione a dire che quel campione di persone poteva risultare rappresentativo della maggioranza degli italiani. Per un tema come questo è evidente che il fatto di essere "italiani" dovrebbe passare totalmente in secondo piano. Questo tema infatti, come tanti altri del resto, è un tema che investe tutti, italiani e stranieri. E allora perché, seppure, stando agli ultimi dati Caritas, gli immigrati residenti in Italia sarebbero, calcolati per difetto, 4 milioni e 600 mila, neppure una delle persone intervistate rientrava in questa categoria?
Per quale motivo non ci interessa la loro opinione su un tema come questo, dove è evidente che hanno tutte le carte in regola per dire la loro, per farci sapere come intendono affrontare il problema dentro gli inevitabili condizionamenti delle loro culture particolari e delle loro altrettanto diverse sensibilità?
Mi è capitato di vivere per quasi un anno a Roma, a due passi da Ponte Milvio e dal suo storico mercato (tanto più storico oggi che è stato spazzato via da un centro commerciale coperto, vedi foto). La zona è relativamente vicina al quartiere Prati e dunque alla sede della Rai di Viale Mazzini. In seguito, spessissimo, mi è capitato di riconoscere quello sfondo familiare dietro i volti degli "uomini della strada" che erano stati interpellati dai registi di servizi sullo stile di quello che sto analizzando. Per chi non avesse mai fatto due passi tra le bancarelle del mercato i Ponte Milvio e si limitasse ad analizzarne la composizione sociale sulla base di quegli stessi servizi di telegiornale, questa risulterebbe essere, con buona probabilità, composta da razza ariana purissima al 100 per cento. Eppure, non credo facciate troppa fatica a credermi, anche quel mercato a due passi dai Parioli, dalla Rai e dai lucchetti dell'amore, pullula, come la maggior parte dei mercati del nostro Belpaese, di corpi, di volti, di voci, di espressioni che nulla hanno di ariano e tanto meno di italico. Individui perfettamente integrati e interagenti con il resto della comunità, individui che leggono gli stessi giornali e guardano la stessa televisione di tutti gli altri. Individui che, tuttavia, non sembravano esistere più quando quei giornali, quella televisione, sentono il bisogno di tastare il polso del paese. Un polso che, preso con questi metodi, temo continuerà ad arrivarci come un'eco distorta e tutto puntellato di battiti mancanti.
mercoledì 23 settembre 2009
la lacuna del mio desiderio

...l'oggetto perduto è in fin fine il soggetto stesso, soggetto come oggetto - il che significa che la domanda del desiderio, il suo enigma originario, non è "Cosa voglio?", ma "Cosa vogliono gli altri da me?" Che oggetto - objet 'a' - vedono in me?
Che è il motivo per cui, riferendosi alla domanda isterica "perché io sono quel nome?" (cioè qual è l'origine della mia identità simbolica, cosa la giustifica), Lacan afferma che il soggetto come tale è isterico: egli definisce tautologicamente il soggetto come "quello che non è un oggetto", dal momento che l'impossibilità di identificare se stessi come oggetto (cioè di sapere cosa sono libidinalmente per gli altri) è costitutiva del soggetto. In questo consiste la dimensione terrorizzante della difficoltà della scelta - ciò che risuona anche nella domanda più innocente quando prenotiamo una stanza d'hotel ("Cuscini soffici o duri? Letto matrimoniale o due singoli?") è la ben più radicale investigazione: "Dimmi chi sei. Che tipo di oggetto vuoi essere? Cosa colmerebbe la lacuna del tuo desiderio?"
Tratto dalla lectio magistralis di Slavoj Žižek a Pordenonelegge'09
Chi vuole intendere intenda. E ho detto tutto.
mercoledì 8 luglio 2009
corpi celesti
il super insetto e la paura della vita
Sarà una stronzata, ma mi è bastato pensarlo per farmi risultare quel mostro, non dico simpatico, ma assolutamente accettabile e inoffensivo. Certo, da morto lo sarebbe stato molto di più, ma il solo pensiero di preferire qualcosa di morto a qualcosa di vivo mi dava il voltastomaco.
P.S.1: qualche minuto più tardi è riemerso dalle tenebre ed è sembrato abituarsi alla mia presenza. Per non farlo agitare ho pensato che anche lui ragionasse come noi e così mi sono mosso il meno possibile per non spaventarlo. Sono stato talmente fermo che un ragnetto mi ha usato come sponda per la sua ragnatela. Ci siamo guardati un intero film insieme. Forse anche lui, contemporaneamente a me, ha prodotto la mia stessa riflessione. Il problema è che adesso siamo bloccati dentro una terribile empasse: se uno di noi due si muove e l'altro si spaventa?
Decido di fare il primo passo e mi muovo io. La ragnatela si stacca e me ne dolgo, del resto prima o poi sarebbe successo. Lui invece non si schioda, resta fermo dov'è, muove soltanto un po' le antenne, come per farmi capire che ha capito. Il sottoscritto, invece, è costretto ad ammettere che se il mio nuovo amico, adesso, facesse uno dei suoi famosi scatti, un po' di tensione ancora me la metterebbe. Ma la mia specie, si sa, è parecchio lenta di comprendonio.
P.S.2: Il ragnetto, nel frattempo, ha ripreso il suo prezioso lavoro poco più in là e ci osserva, con sguardo severo. Sembrerebbe dire: "ma questi due qui non hanno proprio niente di meglio da fare?!"
lunedì 6 luglio 2009
la mia subdola morale
nuove intenzioni per estreme dissoluzioni
Adesso questo tempo me lo sono preso, un po' forzatamente se volete, ma me lo sono preso. Il risultato delle mie considerazioni però, non soltanto risulta ancora profondamente incerto e frammentato, ma di sicuro non ha alcun bisogno di essere scritto sotto forma di un post. Inoltre, per aver voglia di pubblicare le mie riflessioni, dovrei io per primo dare maggior credito a quello che penso, ma ultimamente mi convinco poco.
In questi giorni in ogni caso, ho iniziato a scrivere un racconto che dovrà finire con lo spargimento delle ceneri di un uomo nella neve. Saranno le ceneri di un uomo che ha vissuto gran parte della sua vita cercando di aderire, in senso letterale, ovvero tattile, a livello di pelle alle cose del mondo. Quest'uomo ha espresso il desiderio, appunto, che le sue ceneri compiano un viaggio lento e ruvidamente intenso sul piano della fusione, dello sfregamento e del contatto di un corpo con un altro: il percorso della neve che si scioglie lentamente trasformandosi in acqua viva di torrenti che sfregano il loro corpo molle lungo enormi distanze, su un letto di roccia levigato dal tempo.
Così ho pensato che il senso di questo percorso potrebbe utilmente ispirare il senso stesso di questo blog che, del resto, si chiama proprio LE CENERI DI PETTARINI, le mie ceneri, ovvero le tracce ultime, incombustibili e pure, del mio passaggio nel mondo.
Ecco come darsi un compito che renderà ancora più difficile animare questo spazio con una decente continuità.
domenica 15 marzo 2009
una storia al giorno non toglie il gran finale di torno
Effettivamente, anche se ancora non saprei bene dove potrebbe portare, un simile episodio potrebbe essere un ottimo punto di partenza per svilupparci sopra un bel racconto, magari alla Gogol.
Scrivo questo agli sgoccioli di una settimana durante la quale, tra mille altri impegni, mi sono voluto costringere a scrivere un racconto per tappe forzate sul tema dell'ossessione. Solo oggi, sempre a casa del mio biondo amico, leggo le prime righe dell'oroscopo che Rob Brezsny tiene sulla rivista Internazionale: "Il tuo tema della settimana sono le sane ossessioni".
Ecco, penso, un altro curioso avvenimento con cui condire un potenziale racconto.
Del resto, la mia vita è stata tutto fuorché noiosa e, in fondo, di sale per condire racconti piccoli e grandi non ne è mancato di certo. Quel che manca, che mi è sempre mancato, è il tempo per scrivere, per elaborare tutti gli spunti che nel corso di una giornata mi rincorrono.
Anche se un grande scrittore, ne sono convinto, dovrebbe essere in grado di produrre racconti straordinari anche conducendo una vita in stato semivegetativo.
Ma proprio per questo, la scorsa estate supponevo che uno scrittore mediocre come me, conducendo una vita invasa da molti stimoli esterni, sarebbe stato in grado di scrivere almeno un racconto al giorno per cinque giorni alla settimana. Questa, almeno, era la promessa che avevo fatto a una ragazza con cui avevo iniziato ad avere una storia d'amore e che sosteneva di apprezzare molto le storielle (puramente orali fino a quel momento) che mi inventavo di tanto in tanto a partire da uno spunto del momento. Ormai l'avevo promesso e così, un po' per tenerla stretta a me e un po' per testare fin dove ero pronto a spingermi per lei, inizia a scriverle una mail al giorno con dentro una piccola favola. L'esperimento, tuttavia, cominciò a scemare molto presto. Il primo passo, dopo aver trovato un'idea più succosa delle altre, fu quello di serializzare la narrazione, così da non dovermi inventare un finale al giorno. Perché? Perché avevo scoperto a mie spese che se non hai un buon finale una storia può essere scritta nel migliore dei modi ma non colpirà mai chi la legge. Il difficile, insomma, non era trovare uno spunto buono al giorno, era capire dove arrivare a partire da quel punto di partenza. Iniziai così a rimandare di giorno in giorno il momento della verità, ovvero la decisione su come sarebbe andata a finire quella che ormai era diventata una specie di soap opera.
In realtà (se n'è accorta lei prima di quanto me ne fossi accorto io) stavo rimandando il finale della nostra storia d'amore che, vigliaccamente, mi accontentavo di vivere senza sapere cosa volevo da lei e dove avrebbe potuto portarmi. Le donne, che come al solito si dimostrano ottime lettrici, invece, a tempo debito invocano sempre il finale che il romanziere non gli ha ancora saputo dare. Lei in questo non perse tempo. Io, purtroppo non sapevo come sarebbe andata a finire in nessuno dei due casi. Non lo sapevo nella storia che stavo scrivendo e neppure nella realtà. Quel giorno stesso però, scoprii ch nella realtà non esistono finali aperti. Nella realtà le storie possono benissimo finire così, di punto in bianco.
Forse, ma questo devo ancora testarlo, nella realtà le storie durano, se, come avviene anche nei racconti migliori, sei in grado di immaginarti fin dall'inizio un finale possibile.
E fu così che in un colpo solo, la scorsa estate, imparai due verità molto grandi, sulle storie scritte e sulle storie d'amore: prima di cominciare a scrivere qualcosa e prima di cominciare ad amare qualcuno è preferibile avere un'idea quanto più precisa di come potrebbe andare a finire. In entrambi i casi, questa precauzione ci faciliterà sia nella scelta delle parole migliori da usare, sia delle azioni da compiere (o da far compiere nel caso dei personnaggi).
Il finale però, sia chiaro, va concepito e immaginato quanto più possibile nel dettaglio. Infatti, come è evidente, non basta aver presente che alla fine della vita ci sarà la morte per scegliere con maggiore facilità le scelte da compiere durante il corso della vita. Da qui, tutta la difficoltà che incontriamo nello scrivere la nostra piccola, personale storia quotidiana.
Tanto è vero che nel film Big Fish di Tim Burton, per il protagonista era un vero toccasana essere venuto a conoscenza fin da bambino del modo esatto in cui avrebbe trovato la morte.