Da che parte iniziare, a quest'ora, stanco e sbalordito come sono, a raccontare cos'ha significato, per me, questa sera, vedere, in pellicola, al cinema, la copia restaurata di quello che per me è il film dei film: Pierrot le fou di J.L.Godard?
Comincerò dalla fine senza per forza tornare all'inizio. La fine era la fine di un film che, prima a fuori orario in diretta, poi da un vhs registrato e poi ancora da un dvd comprato su una bancarella parigina, avevo già visto almeno tre o quattro volte, una fine, in altre parole, conosciuta.
Una fine ironica quanto volete quella di Pierrot/Ferdinand/Belmondo che si suicida nel finale, una fine in technicolor, ma pur sempre una fine tragica. Tragica nonostante le voci fuori campo dei due protagonisti, sussurranti sopra un mare luccicante, lascino intendere che nella morte i due amanti hanno finalmente trovato la loro personale "eternità".
Ironica, certo, come ho detto, ma anche una fine di fronte alla quale chiunque ami almeno un po' questo film non può certo mettersi a ridere o accettare che qualcuno, chicchessia in sala, ne rida o, peggio, ne ridacchi.
Eppure questo oggi è avvenuto e il finale perciò, che credevo conosciuto, ne è uscito stravolto. Non tanto per le risata in sé, quando per ciò che ha provocato. Quella risata infatti è riuscita a stizzire il grande vecchio che mi sedeva di fronte, un omone barbuto, con gli occhietti azzurri, vispi e malignamente intelligenti, una specie di Babbo Natale incattivito dagli anni. Il vecchio, con un vocione tenorile che si era già fatto sentire varie volte nel buio della sala, commenta senza troppi giri di parole «che cazzo ti ridi?»
A questo punto devo deludere l'eventuale malcapitato che mi stesse leggendo. Niente risse, niente paroloni che volano o borsettate sulla faccia scagliate dalle rispettive signore. Eravamo in un cinema d'essai, tra gente da cinema d'essai e, pertanto, il semplice far finta di niente dell'autore della risata e bastato per chiudere lì l'accaduto.
Ma nel mio piccolo mondo malato quel vecchio è diventato il mio eroe, uno Zorro incanutito e incontinente, al quale per lasciarti la sua "Z" tatuata in fronte gli basta tirarti un'occhiata storta.
Quel vecchio, lo stesso vecchio, parecchie scene prima, quando nel film Marianne/Karina suggerisce al suo amato/odiato Pierrot di inserire nella sua poesia sulla vita il verso «è come l'odore dell'eucalipto», quel vecchio, dicevo, aveva informato la moglie che gli sedeva accanto (palesemente imbarazzata per quel suo dire non proprio a fil di voce) che la parola "eucalipto" contiene in sé addirittura tutte e cinque le nostre belle vocali AEIOU.
Sono così per me gli eroi. Persone che come Pierrot/Ferdinand/Belmondo si ostinano a tenere la mente sempre viva, così viva da arrivare a sfiorare spesso il limite sublime dell'animalità più autentica, di quando non si vuole e non si cerca null'altro se non, semplicemente, "esistere". Sono persone sole che parlano troppo e per le quali "amare" corrisponde a "raccontare", perché quando amano sanno vedere in tutto, ovunque e dovunque una storia nascosta dentro il semplice movimento delle cose. Sono degli scorbutici Godard innamorati della loro Anna Karina, è gente a cui neppure serve dire «azione» che stanno già facendo CINEMA.
giovedì 12 novembre 2009
mercoledì 11 novembre 2009
I battiti mancanti al polso del Belpaese
Ieri mattina a UNO MATTINA, l'Italia, me compreso, ha potuto assistere, per l'ennesima volta nel corso di queste ultime settimane, a un servizio che consisteva in una serie di interviste al cosiddetto "uomo della strada" al quale si chiedeva un'opinione, o per meglio dire un commento a caldo, un'impressione su questa fantomatica influenza H1N1.
Agli intervistatori, in particolare, interessava capire cosa ne sapesse la gente e come ognuno di loro avesse scelto di gestire questo del tutto ipotetico allarme infettivo. Io, invece, una volta che la linea è tornata in studio, avrei tanto voluto capire come abbia fatto il condutture della trasmissione a dire che quel campione di persone poteva risultare rappresentativo della maggioranza degli italiani. Per un tema come questo è evidente che il fatto di essere "italiani" dovrebbe passare totalmente in secondo piano. Questo tema infatti, come tanti altri del resto, è un tema che investe tutti, italiani e stranieri. E allora perché, seppure, stando agli ultimi dati Caritas, gli immigrati residenti in Italia sarebbero, calcolati per difetto, 4 milioni e 600 mila, neppure una delle persone intervistate rientrava in questa categoria?
Per quale motivo non ci interessa la loro opinione su un tema come questo, dove è evidente che hanno tutte le carte in regola per dire la loro, per farci sapere come intendono affrontare il problema dentro gli inevitabili condizionamenti delle loro culture particolari e delle loro altrettanto diverse sensibilità?
Mi è capitato di vivere per quasi un anno a Roma, a due passi da Ponte Milvio e dal suo storico mercato (tanto più storico oggi che è stato spazzato via da un centro commerciale coperto, vedi foto). La zona è relativamente vicina al quartiere Prati e dunque alla sede della Rai di Viale Mazzini. In seguito, spessissimo, mi è capitato di riconoscere quello sfondo familiare dietro i volti degli "uomini della strada" che erano stati interpellati dai registi di servizi sullo stile di quello che sto analizzando. Per chi non avesse mai fatto due passi tra le bancarelle del mercato i Ponte Milvio e si limitasse ad analizzarne la composizione sociale sulla base di quegli stessi servizi di telegiornale, questa risulterebbe essere, con buona probabilità, composta da razza ariana purissima al 100 per cento. Eppure, non credo facciate troppa fatica a credermi, anche quel mercato a due passi dai Parioli, dalla Rai e dai lucchetti dell'amore, pullula, come la maggior parte dei mercati del nostro Belpaese, di corpi, di volti, di voci, di espressioni che nulla hanno di ariano e tanto meno di italico. Individui perfettamente integrati e interagenti con il resto della comunità, individui che leggono gli stessi giornali e guardano la stessa televisione di tutti gli altri. Individui che, tuttavia, non sembravano esistere più quando quei giornali, quella televisione, sentono il bisogno di tastare il polso del paese. Un polso che, preso con questi metodi, temo continuerà ad arrivarci come un'eco distorta e tutto puntellato di battiti mancanti.
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