domenica 15 marzo 2009

una storia al giorno non toglie il gran finale di torno

In questo momento sono ospite di un amico che conosco ormai da molti anni, ma lui senz'altro si conosce da molto più tempo, per la precisione da 43 anni appena compiuti. Il mio amico è biondo, biondissimo dalla testa ai piedi. Appena mi vede mi racconta molto eccitato di essersi alzato questa mattina con un pelo nero che spuntava solitario e appariscente tra i baffetti paglierini.
Effettivamente, anche se ancora non saprei bene dove potrebbe portare, un simile episodio potrebbe essere un ottimo punto di partenza per svilupparci sopra un bel racconto, magari alla Gogol.
Scrivo questo agli sgoccioli di una settimana durante la quale, tra mille altri impegni, mi sono voluto costringere a scrivere un racconto per tappe forzate sul tema dell'ossessione. Solo oggi, sempre a casa del mio biondo amico, leggo le prime righe dell'oroscopo che Rob Brezsny tiene sulla rivista Internazionale: "Il tuo tema della settimana sono le sane ossessioni".
Ecco, penso, un altro curioso avvenimento con cui condire un potenziale racconto.
Del resto, la mia vita è stata tutto fuorché noiosa e, in fondo, di sale per condire racconti piccoli e grandi non ne è mancato di certo. Quel che manca, che mi è sempre mancato, è il tempo per scrivere, per elaborare tutti gli spunti che nel corso di una giornata mi rincorrono.
Anche se un grande scrittore, ne sono convinto, dovrebbe essere in grado di produrre racconti straordinari anche conducendo una vita in stato semivegetativo.
Ma proprio per questo, la scorsa estate supponevo che uno scrittore mediocre come me, conducendo una vita invasa da molti stimoli esterni, sarebbe stato in grado di scrivere almeno un racconto al giorno per cinque giorni alla settimana. Questa, almeno, era la promessa che avevo fatto a una ragazza con cui avevo iniziato ad avere una storia d'amore e che sosteneva di apprezzare molto le storielle (puramente orali fino a quel momento) che mi inventavo di tanto in tanto a partire da uno spunto del momento. Ormai l'avevo promesso e così, un po' per tenerla stretta a me e un po' per testare fin dove ero pronto a spingermi per lei, inizia a scriverle una mail al giorno con dentro una piccola favola. L'esperimento, tuttavia, cominciò a scemare molto presto. Il primo passo, dopo aver trovato un'idea più succosa delle altre, fu quello di serializzare la narrazione, così da non dovermi inventare un finale al giorno. Perché? Perché avevo scoperto a mie spese che se non hai un buon finale una storia può essere scritta nel migliore dei modi ma non colpirà mai chi la legge. Il difficile, insomma, non era trovare uno spunto buono al giorno, era capire dove arrivare a partire da quel punto di partenza. Iniziai così a rimandare di giorno in giorno il momento della verità, ovvero la decisione su come sarebbe andata a finire quella che ormai era diventata una specie di soap opera.
In realtà (se n'è accorta lei prima di quanto me ne fossi accorto io) stavo rimandando il finale della nostra storia d'amore che, vigliaccamente, mi accontentavo di vivere senza sapere cosa volevo da lei e dove avrebbe potuto portarmi. Le donne, che come al solito si dimostrano ottime lettrici, invece, a tempo debito invocano sempre il finale che il romanziere non gli ha ancora saputo dare. Lei in questo non perse tempo. Io, purtroppo non sapevo come sarebbe andata a finire in nessuno dei due casi. Non lo sapevo nella storia che stavo scrivendo e neppure nella realtà. Quel giorno stesso però, scoprii ch nella realtà non esistono finali aperti. Nella realtà le storie possono benissimo finire così, di punto in bianco.
Forse, ma questo devo ancora testarlo, nella realtà le storie durano, se, come avviene anche nei racconti migliori, sei in grado di immaginarti fin dall'inizio un finale possibile.
E fu così che in un colpo solo, la scorsa estate, imparai due verità molto grandi, sulle storie scritte e sulle storie d'amore: prima di cominciare a scrivere qualcosa e prima di cominciare ad amare qualcuno è preferibile avere un'idea quanto più precisa di come potrebbe andare a finire. In entrambi i casi, questa precauzione ci faciliterà sia nella scelta delle parole migliori da usare, sia delle azioni da compiere (o da far compiere nel caso dei personnaggi).
Il finale però, sia chiaro, va concepito e immaginato quanto più possibile nel dettaglio. Infatti, come è evidente, non basta aver presente che alla fine della vita ci sarà la morte per scegliere con maggiore facilità le scelte da compiere durante il corso della vita. Da qui, tutta la difficoltà che incontriamo nello scrivere la nostra piccola, personale storia quotidiana.
Tanto è vero che nel film Big Fish di Tim Burton, per il protagonista era un vero toccasana essere venuto a conoscenza fin da bambino del modo esatto in cui avrebbe trovato la morte.

lunedì 2 marzo 2009

La siciliana ribelle

Questa sera, rientrando dal cinema, noto che già sulla statale, senza doversi inoltrare troppo in periferia, soprattutto in curva e all'altezza degli incroci, l'asfalto è ricoperto da strisce di rametti e di foglie che scrocchiano sotto gli pneumatici.
Allora penso che, in effetti, già da qualche giorno è iniziata la stagione della potatura. Un gesto tra i più potenti e simbolici, forse, tra tutti quelli che ancora ci legano ai ritmi della terra. Si recide qualcosa, si sacrificano delle parti per garantire o per migliorare la vita della pianta nel suo complesso.
E allora non posso fare a meno di pensare, a pochi minuti dalla visione di un film come La siciliana ribelle, che forse una metafora possibile da utilizzare per cercare di comprendere, almeno in parte, la storia della lotta alla mafia in Italia. Una storia con una parabola che ci appare in troppi tratti assurda e paradossale; quanto meno perché a fronte di uno stuolo di vittime, di martiri, di vite sacrificate, la mafia esiste ancora e prolifica sempre di più, svelandosi, per altro, sempre più inserita dentro le trame stesse dello stato che in teoria dovrebbe rappresentarne la perfetta controparte. Certo, voglio dire quello che immaginate, cioè che i collaboratori di giustizia (come Rita Atria di cui il film ricostruisce la vicenda di vita) e con loro tutti i magistrati fatti saltare in aria (o abilmente trasferiti), in fondo, sono come gli scarti di una potatura; sono parti che era necessario sacrificare perché la giustizia, nel suo complesso, e lo nazione in quanto corpo civile potessero continuare a crescere più forti.
Sì, è senz'altro così per quanto sia duro e terribile ammetterlo, ma se facciamo lo sforzo di estenderla in modo radicale, mi sembra che questa metafora riesca a metterci di fronte a una realtà ancora più inquietante. Ovvero, che lo stato da una parte e la mafia dall'altra sono entrambi dei giardinieri, formalmente lavorano per padroni diversi ma, in fondo, fanno lo stesso lavoro. Sotto le cesoie della macchina della giustizia, ogni tanto, cadano alcune teste dell'"organizzazione" ma, a occhio e croce, quasi sempre sembra che questo permetta al "corpo" mafioso di riorganizzarsi al meglio e di rinverdire gli organici. Quando, invece, a cadere sotto i colpi dell'altro giardiniere sono le istituzioni, colpite a tutti i livelli, sembra che, di conseguenza, a tutti i livelli della società, nasca spontaneo un desiderio di ribellarsi a tanta meschinità, un desiderio che (come nel film) è animato da sete di vendetta più che da sete di giustizia; un desiderio che ha sepolto o ridotto alla pazzia centinaia di martiri laici.
Adesso vado a letto, sperando che almeno in sogno mi si presenti una via d'uscita a tutto questo. Ma so già che domani mattina mi risveglierò nella stessa Italia di oggi e dovrò, comunque, vivere e lavorare cercando di fare quel che posso per garantire un futuro diverso a questo paese, che mi ostino a sentire troppo mio per abbandonarlo prima di esserne reciso.